io e il mare

io e il mare

domenica 29 aprile 2012

CREDERE IN LUI PER CREDERE IN NOI

Quando guardo i filmati d'epoca in televisione, in particolare quelli degli anni sessanta, durante il boom economico, vedo che la fiducia nel futuro totale. La gente aveva trovato il benessere, le industrie producevano, sembrava che questo trend non potesse mai avere fine. Cosi' però non fu, negli anni settanta ci fu la crisi, disoccupazione, petrolio alle stelle, classe operaia in rivolta, e ahimè anche fenomeni deprecabili come il terrorismo di ogni colore politico. Negli anni ottanta ci fu un altro boom. Di nuovo l'economia riprese a viaggiare, la gente riprese persino troppa fiducia in se stessa tanto da sconfinare in un eccesso di individualismo da far ricordare quel periodo come eccessivo, ridondante, vedi l'edonismo reganiano e le griffes sui vestiti che impazzavano.
Gli anni novanta furono invece lo sparti acque fra la fine di un'era, quella industriale, e l'inizio di quella telematica, con l'accesso di internet. Tutto divenne veloce, rapido. Direi quasi frenetico E via discorrendo. Ora siamo nel 2012, l'epoca della globalizzazione è iniziata da un decennio e sostanzialmente sembra che siamo entrati nell'era del pantano, in cui le sabbie mobili di un mondo globale tendono a rendere sempre piu frenetiche le operazioni. Di conseguenza, il pantano della globalizzazione ci ha resi tutti piu vulnerabili, piu poveri, sia in tasca, sia dentro di noi. E in tutto questo, che valore hanno le persone? L'incertezza per il futuro è tanta. Torniamo a credere prima in noi, in Lui, perchè è solo credendo in Lui che possiamo tornare a credere in noi e ad un futuro migliore

sabato 7 aprile 2012

UNA NUOVA CREAZIONE



Nell'augurare a tutti una Pasqua di Gesu' (perchè tale è, altrimenti davvero diventa una festa solo per stare insieme, con la Colomba per gli adulti e l'ovetto a tavola per i bimbi...ma è solo il mio modesto parere ) serena e piena di gioia, rifletto su una frase del Pontefice di ieri che mi ha molto colpito:
"La Pasqua è una nuova creazione".
Non amo molto disquisire di temi religiosi qui, sono credente ma rispetto chi non lo è, ma credo che questa frase, indipendentemente da come la si pensi sul Vaticano e sull'operato della sua massima figura, sia assolutamente da condividere per il significato profondo e reale che sta dietro la festa che celebriamo ogni anno in primavera.
Che sia una nuova creazione per tutti, una rinascità dalle ceneri del peccato per tutti noi, già in questa vita, in attesa di quella che ci attenderà quando questa vita terrena cesserà.
Auguri a tutti

giovedì 5 aprile 2012

SERVIZI VINCENTI: Parte II


... Ora però non c’era più tempo per pensare, l’arbitro di sedia aveva chiamato il tempo e si era pronti a giocare.
Iniziò deciso Geronimo. Primo punto, servì una prima palla con una violenza inaudita, con tutta la forza che aveva nel braccio, come se avesse un cannone da far espoldere senza alcuna forma di controllo.
Ace. Andersson immobile come una statua di sale.
Un’ovazione del pubblicò precedette l’annuncio del giudice di sedia, secco e vibrante
“Fifteen love-quindici zero”.
Gli venne subito in mente la sua infanzia ricca ed opulenta. Il padre, titolato del fregio di “commendatore”, era stato insignito dell’Ambrogino d’Oro per lo sviluppo e l’ammodernamento della rete idrica in città. Era un uomo generoso Filippo Bardazzi, amato dal popoli degli “sciur” come dai “puverett”, tanto da prestarsi spesso ad opere di carità nascoste verso i meno bisognosi. Di suo padre ricordava questo, cosi come le domeniche mattine trascorse al laghetto dei Cigni a Milano 2, mentre sul piazzale i primi appassionati di macchine radiocomandate si dilettavano a chi faceva piu volte rotolare quelle che papà Filippo, sempre fiero ed orgoglioso della sua milanesità, chiamava bonariamente “caciavitt”.
La madre, una ricca ereditiera imparenata con i conti Borromeo, era la classica donna snob milanese con la puzza sotto il naso talmente forte da indossare una maschera anti gas al solo contatto per non rimanerci contaminato. Una donna gelida, senza arte né parte, la cui massima aspirazione era mostrare nelle serate fra amici l’ultimo visone acquistato, l’ultimo collier ricevuto in dono.
Tutto questo gli frullava in testa mentre Andersson gli era scappato via di un break e conduceva 4 a 1. Stava giocando male, ma non se ne curava più di tanto. La concentrazione era sulla partita della sua vita, quella che lui stava perdendo in modo ancor più netto rispetto a quella sul campo.
Andersson lo faceva spostare da una parte all’altra del terreno rosso come una trottola vibrante, lo irrideva con delle palle corte che lo lasciavano sulle gambe a tre metri di distanza dalla linea di fondo. Qualcuno dagli spalti cominciò a dissentire, qualcuno da casa probabilmente aveva già cambiato canale…
Non aveva presenza mentale. Continuava a tirare colpi fuori di due metri tanto per tirarli, un po’ come quando si trovava con il gruppo di suoi amici al casino di Saint Vincent, giù fish su fish solo per il mero gusto di buttare via soldi, di scappare dallla realtà. In realtà stava solo scappando da se stesso, dalla sua voglia di diventare uomo. E gli stava anche scappando l’incontro della vita. Andersson conduceva 6-1 4-2. Lo stava annichilendo.
Ad un certo punto sentì un urlo venire dagli spalti. Un signore di mezza età, dall’incondifibile accento romano, lo affrontò verbalmente durante un ennesimo fallimentare turno di battuta:
“Aooooooooooooooo, tirali fuori sti coioniiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii se ce li haiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!!!”
Era la scossa che nemmeno lo sguardo perso nel vuoto di Katia era riuscito a trasmettergli. Amava questa donna, sapeva che era il suo spartiacque da un’adolescenza che non voleva finire ad un’età adulta che si rifiuta di vivere. Tenne un turno di battuta e cominciò a cambiare tattica. Decise di aspettare l’avversario e di farlo venire avanti, scavalcandolo prontamente con dei pallonetti liftati alternati a dei passanti di dritto che lo infilavano di forza come un pollo allo spiedo.
Come direbbero i commentatori esperti sul pezzo, era girato il match. Andò a servire per il secondo set e riuscì a farlo suo, chiudendo il punto finale con una voleè di dritto smorzata, morbida, dolce, quasi impercettibile per il suono soave che la pallina procurò al suo contatto con la terra rossa.
Nel toccare la palla al volo riusciva a far riecheggiare in lui le sue prime cotte adolescenziali, quel modo unico di sentire la pelle profumata di vaniglia sul collo di una ragazzina e farla propria sfiorandola appena al contatto con le labbra. La dicotomia del suo essere dolce nelle coccole come nello stoppare la pallina al volo strideva con la violenza dei suoi colpi da fondo campo, paragonabili a quelli pelvici che infieriva alle belles de nuit di qualche elegante bordello monegasco. Ma era così, era lui, tutto ed il contrario di tutto. E non voleva cambiare.
Ora si sentiva forte e nel pieno controllo della situazione. Lo svedesone non gli faceva più paura, e gli insulti di qualche minuto prima si erano tramutati in cori da stadio. Dalla tribuna vip spiccavano le figure dei miti del tennis italiano, quella appesantita di Adriano Panatta e quella dai capelli grigio platino, sempre uguale nella classe infinita che sprigiona, di Nicola Pietrangeli. Lui era ad un passo da loro, dal superarli forse addirittura, perché la gente scorda facilmente il passato per lasciare spazio alle emozioni più recenti, forse più intense, forse meno facili da rimuovere…

Si andò al tie break del set decisivo. Stava riprendendo a farsi prendere dalla foga e dall’ansia, quella faìna maledetta che da anni si annidava dentro di lui facendogli perdere treni importanti nella sua carriera. Stava riprendendo a viaggiare nella sua testa, e non era più in partita. I pensieri dentro il campo del suo cervello erano come palline impazzite che lo bombardavano da ogni parte del rettangolo di gioco. Allo stesso modo Andersson lo stava prendendo nuovamente a pallate. Era sempre stato scostante, nella vita, incapace di essere un padre presente, nel lavoro, arrivando in fondo a tornei importanti e poi perdendo svariate volte al primo turno con avversari mediocri, spesso perché la sera prima la passava a fare gozzoviglie in giro per la città. Ora il match stava per chiudersi e lui non sapeva perché lo stesse buttando via, proprio come la sua vita.
Lo svedesone Andersson era il suo esatto opposto. Biondo, capelli lunghi, era una copia malfatta del leggendario Bjorn Borg. Del campione degli anni settanta ricordava la plombe con cui accettava ogni situazione sfavorevole, l’assoluta gelidità nel porsi davanti alle situazioni come se tutto quello che accadesse intorno a lui non lo riguardasse. Tutto ciò che Geronimo aveva sempre detestato, lui, così anticonformista, rasato a zero e con un orecchino a croce sul lobo destro, come amava dire, non assomigliava a nessuno.
Di fatto ora lo spilungone nordico conduceva per sei punti a tre ed aveva quindi tre match point. La partita era segnata, l’orologio posto ai bordi del campo segnava due ore e trentacinque miuti di gioco…

EPILOGO

Non aveva mai amato sentirsi dire cosa fare dagli altri. Era sempre stato uno spirito libero. Gli venne in mente quando tirò una pallina in faccia al suo primo allenatore di categoria, reo di averlo rimproverato perché non voleva che fumasse a quattordici anni e si presentasse agli allenamenti in infradito.
Andersson stava servendo per il match. Per altri cinque minuti Geronimo invocò l’altissimo affinchè riuscisse a fargli recuperare quel minimo di concentrazione necessaria per chiudere in bellezza l’incontro, con dignità. Fece ricorso poi ad ogni sua risorsa interiore per trovare la presenza mentale dentro di sé.
Andersson fece doppio fallo sulla prima palla del match. Tutto il pubblico, oltre che l’avversario, scoprì che lo svedesone era un uomo in carne ed ossa, che non aveva dei tubi d’acciaio al posto delle vene. Provava anche lui delle emozioni.
Sul secondo patch point Andersson picchiò una prima palla così forte da far piegare il braccio ad un lottatore di wrestling. Ma non aveva fatto i conti con chi aveva davanti a lui, il genio e sregolatezza del tennis, il mito e vaso di Pandora della vita. L’alterego indiano di Geronimo rispose di rovescio con un riflesso cibernetico, e la pallina come scheggia impazzita si infilò all’incrocio delle righe, mentre lo svedese rimase a bocca aperta con le gambe impiantate sul terreno, e lo sguardo perso nel vuoto.
Toccò nuovamente a lui servire, e sentiì nuovamente quella goccia indisponente di sudore cadergli sul naso dalla fronte. Ma non ci fece caso. E’ solo sudore, è solo acqua sporca, disse fra sé e sé. Sparò un proiettile imprendibile di dritto in lungo linea e si portò sul sei a cinque. Aveva un match point e lo poteva giocare sul suo servizio.
Il campo centrale del foro italico si era trasformato in un arena degna delle corride di Pamplona. Nessuno poteva immaginarsi all’inizio del torneo che un trentenne ormai a fine carriera, dileguato dai debiti per colpa della sua vita dissoluta, fatta di vizi, stravizi, orge, ed investimenti sciagurati, potesse di nuovo alzare la testa e sorprendere tutti.
Nessuno tranne lui. Senza pensare troppo a tutto questo, servì dal lato destro del campo la quinta prima palla consecutiva. Decise, per una volta nella sua vita, di controllare la sua esuberanza, di calibrare le sue emozioni, di morigerare la propria supponenza. Optò per una prima palla a tre quarti di velocità, dandosi eventualmente la possibilità di giocare il punto con degli scambi lunghi, magari con pazienza, requisito a lui sconosciuto nei precedenti trent’anni della sua vita.
Ma non ve ne fu bisogno.
Il colpo partì da destra verso sinistra diretto in centro. Andersson si allungò con tutti i suoi centonovantaquattro centimetri di altezza nel vano tentativo di riuscire a rispondere. Toccò appena la pallina ma senza riuscire a rimandarla dall’altra parte del campo. Per la nomenclatura tennistica trattasi di servizio vincente.
Di fatto era punto, era partita, era vittoria.
Alzò le braccia al cielo ricordando a molti quel ragazzo pel di carota che vent’anni prima vinse il torneo di Wimbledon da adolescente. Lui non lo era più da un pezzo, ma aveva lo stesso entusiasmo, la stessa voglia, la stessa carica di un diciassettenne.
Capì in quel momento,mentre il pubblico lo osannava, e le tv lo assediavano, che a volte nella vita non è necessario fare punto con un colpo solo, ma è sufficiente anche, solo e soltanto, un semplice servizio vincente.

mercoledì 4 aprile 2012

SERVIZI VINCENTI: Parte I


In attesa dell'articolo pasquale, oggi inserisco la prima parte (e stasera la seconda) di un racconto che scrissi alcuni anni fa.

Spero possa piacervi. E' leggero, non sono Proust, ne sono consapevole... :-)


Servizi Vincenti

C’è sempre un effetto particolare, direi quasi eccitante, nel vedere quella goccia di sudore cadere dalla fronte di un tennista al suo turno di battuta. E’ il simbolo della sofferenza, della fatica, di quel momento in cui ti ritrovi di fronte il tuo avversario e senti questo zampillo d’acqua acida che ti scende dalla fronte e cade dispettosa sul naso mentre la tua testa, ogni singolo centimentro di ogni singolo neurone, spartisce l’ordine di sparo al braccio.
Era il suo momento. Finalmente.
Aveva lottato molto per raggiungere la finale. Aveva superato avversari ostici, che in precedenti tornei gli avevano fatto mangiare la terra (rossa) mentre ora si dovevano inchinare alla sua classe, al suo talento, alla sua voglia di vincere.
Dopo dieci anni di una carriera quasi anonima, passata a giocare tornei minori solo perché a casa c’era una famiglia da mantenere, o più realisticamente perché se la faceva addosso a prendere un volo intercontinentale a settimana, Geronimo Bardazzi era riuscito nell’exploit di raggiungere la finale degli Internazionali d’Italia. Dopo oltre trent’anni, nel ricordo dell’ottavo Re di Roma Adriano Panatta , ora tutto il Foro Italico era ai suoi piedi, tutta l’ Italia lo guardava in tv con trepidazione. Tutte quelle paure, quelle ansie, erano solo un vecchio superato ricordo. Almeno così pareva.
Dall’altra parte del campo, lo svedese Thomas Andersson. Ma questo non importa a nessuno, al di là della rete c’è l’avversario, chiunque egli fosse, metafora incarnata della vita, che ora si proponeva davanti ai suoi occhi come una dama maliziosa che ammicca suadente, pronta però a colpirlo senza pietà e a farlo correre come un tergicristallo da una parte al’altra del campo. Se la stava facendo sotto un’altra volta, sotto sotto, come un bambino dell’asilo la prima volta fuori dal vasino di casa sua, ancor prima di cominciare a correre.
Scesero dagli spogliatoi ed un ammasso confusionario e disordinato di fotografi, come tradizione e logica vuole in Italia, li attendeva accovacciati ed ammassati ai lati del serpentone che collegava gli spogliatoi all’ingresso del campo centrale. Un applauso fragoroso, seguito da un’ovazione all’annuncio del suo nome da parte del giudice arbitro, ruppe il ghiaccio fra l’attesa interminabile e l’inizio del match.
Guardò fisso verso le tribune, salutò svogliato sua moglie seduta una fila dietro il sindaco ed altre celebrità. Katia era lì, a sostenerlo, ancora una volta, malgrado le sue notti brave a Milano Marittima fra fiumi di Moet Chandon e bollicine, infinite linee di polvere bianca sniffata sulle cosce bollenti di navigate professioniste del meretricio d’alto bordo. Narrano le cronache della Milano bene di un’intera nottata trascorsa fra discoteche e piste ( quelle da ballo erano già parte delle discoteche stesse) talmente sfrenata che al suo ritorno a casa sua moglie lo avrebbe preso a zoccolate sui denti facendolo scendere in boxer giu dalle scale, come il peggiore degli amati colti, mai termine fu piu azzeccato, in fallo... (to be continued...)

CORAGGIO DA VENDERE...




Mi sono sempre di piu reso conto che nella vita conta chi ha coraggio. Lo so, sembra scontato, ma se ci si pensa bene non è cosi'. Le persone che hanno coraggio sanno affrontare le situazioni a viso aperto, senza essere attanagliati dalla paura, non esiste la paura, non esiste l'idea di fallire semplicemente perchè il fallmento non esiste, non è un insuccesso ma solo un risultato di un'attività, che porterà ad altre attività con risultati a loro volta differenti.
Fallisce solo chi non agisce.
Pertanto, invito chi legge, adesso, ad agire, ad avere coraggio, sul lavoro, nei sentimenti, senza incoscienza, preservando se stessi,ma laddove è possibile non rinuciare mai a provare ad essere felici.
Notte a tutti

lunedì 2 aprile 2012

IL MIRACOLO DELLA PRESENZA MENTALE


Anni fa mi avvicinai, per sole ragioni di cultura personale, alla cultura buddista, una filosofia di vita o religione che per molti aspetti ha dei punti di contatto col Cristianesimo. In questo mio "avvicinamento", ricordo il titolo di un libro che mi colpi' particolarmente, evocativo e per certi versi emblematico: "Il Miracolo Della Presenza Mentale".
Non vi è dubbio che in un mondo schizofrenico come il nostro, in particolare nella società occidentale, la capacità di saper avere autocontrollo e concentrazione sulle situazioni sia divenuta assolutamente necessaria, se non imprescindibile.
Il fatto però che spesso arrivi a venir meno "l'autocontrollo" non vuol dire però avere quella che i saggi orientali chiamano piena "presenza mentale".
Se ben ci pensiamo, sono sempre meno i momenti in cui operiamo in piena autonomia con il nostro cervello. Il piu delle volte ci capita di esercitare azioni quotidiane, come il guidare, il lavare i piatti, anche guardare un programma tv, e avere la testa che va completamente altrove, e come un mulino ad acqua di campagna, gira e macina pensieri lungo la testa, per minuti, a volte anche per ore.
Tutto questo, inevitabilmente, ci porta a perdere il contatto con quello che stiamo facendo in quel momento, ci porta ad essere pertanto poco lucidi nell'affontare le situazioni, a creare spesso delle situazioni inesistenti, delle aspettative esagerate, o piu' semplicemente a non farci ottenere dei risultati positivi nelle nostre attività quotidiane, che siano lavorative o meno.
La presenza mentale è un'allenamento alla piena consapevolezza di sè, aumenta l'autostima, aiuta ad essere il più aderenti possibile al momento che si vive. Di questi tempi, è davvero oro colato, il miracolo della presenza mentale.

domenica 1 aprile 2012

IL GIUSTO SAPORE



Non sempre è facile scrivere cercando di non essere banali, ovvi, col solo intento di voler lasciare un messaggio di pace e di speranza.
La pace e la speranza in un futuro migliore è per me nella valorizzazione dei sentimenti, vederli come un buon piatto succulento che va però condito con gli ingredienti del giusto impegno nel dar loro il giusto sapore.
Qualche giorno fa assistevo alla Via Crucis e mentre mi voltavo, è stato bello vedere il modo in cui una giovane coppia assisteva e viveva questo momento di spiritualità. Nei loro occhi si percepiva il senso della condivisione, quello spirito che dovrebbe sempre unire non solo le coppie che si amano, ma anche le persone che si frequentano, e che, teoricamente, si rispettano
Nella società delle emozioni preconfezionate usa e getta mi piace ancora pensare che esista ancora la cultura dei sentimenti, dei bei gesti, del buon cuore senza finti buonisimi da "Libro Cuore" ma con il solo intento di dare il giusto sapore a quel piatto che ci è stato dato, a volte piu' dolce, a volte piu'amaro, chiamato vita.