io e il mare

io e il mare

giovedì 5 novembre 2015

DIO METTE TUTTO A POSTO





Dio mette le cose a posto sempre. Anche quando tutto sembra buio, anche quando tutto sembra più complicato, eccolo pronto a sistemare le cose, ancora una volta, malgrado tutto, malgrado tutti, malgrado le cattiverie di chi lo attacca, malgrado i dubbi di chi non riesce ad affidarsi totalmente a Lui come me.  Dico sempre che la fede è una scommessa e che per me contano solo le persone, al di là di tutto. Oggi ho incontrato un caro amico musulmano a cui voglio molto bene, un uomo che mi vuole davvero bene e mi rispetta, rispetta la mia fede, le mie idee. E non mi chiede nulla. Che bello, è qualcosa da salvare in questi giorni difficili, un segnale, che DIO è DIO di tutti, dei Musulmani, dei Cristiani, DIO è con noi per noi. Ieri sera in un momento di grande sconforto ho fatto la cosa peggiore, ovvero offenderlo, e ora qui, in questo mio spazio, ti chiedo perdono e ti ringrazio per questo momento di pace dopo tanta sofferenza. Ho bisogno di pace, di tanta pace, e stasera ti cercherò nel Vangelo, nella lettura, nella preghiera. Grazie Dio per tutto e perdonami ancora. Non ho niente da perdere. La fede è una scommessa, il nulla è per chi non ha il coraggio di vedere oltre, malgrado le difficoltà, malgrado le prove, la croce è la prova, chi vuole seguire Cristo deve portare la sua e io ho il dovere di provarci, di continuare a farlo, malgrado tutto. 
Perdonami ancora e grazie Padre Celeste.

venerdì 23 ottobre 2015

FRA PRESENTE E PASSATO IL VALORE DEI SENTIMENTI



"Sai, ho smesso di pensare al futuro per non deprimermi. Viviamo un presente "debole", ci siamo indeboliti di fronte alle incertezze. In passato non c'era tempo per essere deboli. Noi siamo ancora quella generazione che usa la testa e soprattutto il sentimento. Siamo cresciuti nelle difficoltà oggettive, viviamo tuttora un presente che forse sentiamo diverso e con più dolore rispetto ai giovani d'oggi. La famiglia per me è tutto in effetti..."

Queste parole non sono mie. Me le ha scritte un' amica verso cui nutro stima assoluta per la sua semplicità e i valori in cui crede. Non ci siamo conosciuti personalmente, è un’amicizia virtuale eppure una di quelle a cui tengo di più in attesa di poterci un giorno incontrare ed abbracciare. Sono parole vere, profonde, che testimoniano il nostro tempo.  Quando le ho lette mi hanno trasmesso forza e coraggio oltre ad aver appreso,almeno spero, una lezione di fondamentale importanza.
In questo momento un po’ particolare della mia vita mi capita di ripensare a quando mia madre e mia zia, oggi ambedue purtroppo ammalate, curavano la loro mamma. Ho un ricordo nitido di quel periodo, anche se io ero poco più che bambino. Erano ovunque, correvano, si sacrificavano fra loro e casa e non avevano tempo per distrarsi o lamentarsi. L’amore era una missione, il dovere dell’amore, perché l’amore non è una costrizione ma un dovere interiore, una missione da compiere per dare senso alla nostra esistenza terrena altrimenti vuota ed insignifcante. In passato non c’era tempo per essere deboli, bisognava rimboccarsi le maniche e lavorare e correre, senza sosta, senza fiato. Noi siamo quella parte di quella generazione che usa la testa e soprattutto il sentimento. Quanto è vero, quanto mi rispecchio in queste parole meravigliose perché abbiamo capito quello che ci hanno insegnato i nostri genitori, i nostri nonni. Una volta non c’era internet, non c’erano i telefonini, c’era il calore della famiglia, un libro, lo stare insieme, il volersi bene nella semplicità del nucleo familiare. Io sto ritrovando tutto questo, ogni tanto mi perdo perchè per natura sono incostante, poi arriva la bussola dall’alto, quel faro immenso che sembra non esserci, che sembra dormire sulla barca come in quel passaggio del Vangelo di Marco ( ma mi pare essere presente anche in Luca, che ignorante che sono in materia) per poi avere la forza di calmare il vento e la tempesta e ricordarci che Lui può tutto, malgrado tutto, anche se a volte non ci pensiamo, non ci crediamo e gli voltiamo le spalle (io per primo).

Se coltiviamo l’amore col culto del sacrificio possiamo adempiere una missione che pare complicata ma in realtà non lo è: ambire alla verticalità dell’amore, passare da quello “finito” di noi esseri umani a quello infinito di Dio. Per fare questo occorre allenarsi molto, cadere tante volte, sbucciarsi le ginocchia e costruirsi delle ali giorno per giorno, consapevoli che fino a prova contraria non ci sono alternative alla famosa frase di Sant’Agostino: "ama, e fa’ ciò che vuoi."

lunedì 28 settembre 2015

UNA MATTINATA D'AUTUNNO COME TANTE




Il silenzio di un'anonima mattinata autunnale , quando Milano dorme ancora,  come diceva Fabio Concato (anche se la sua era una domenica bestiale, non un lunedì), fa riflettere e trasmette un po’ di serenità in chi come me non abbia tanto presente questo concetto da tempo e cerchi delle risposte dentro di sé a quello che solo indirettamente sta vivendo.Quanto mi piacerebbe poter riavvolgere la bobina della vita, che invece viaggia su un vecchio mangianastri col solo tasto “play” funzionante”. E la velocità, sempre la stessa, è in realtà più spedita di quello che pensiamo o possiamo concepire, e non puoi farti scappare nessun passaggio perché non ti sarà consentito riascoltarlo.
Forse è meglio così, penso che le emozioni siano uniche nel momento in cui si vivano, non possano essere riproposte in differita, sarebbero un surrogato, sarebbero una copia sbiadita, e coi sentimenti non puoi fare clonazioni, coi sentimenti non puoi utilizzare dei ripieghi.Lottiamo, con forza, con coraggio, dopo questa ennesima notte difficile. La fatica si fa sentire ma non vincerà.   Ora ci vuole lucidità, tanta gioia, quella che nessuno mi potrà mai portare via da colei che mi ha dato e mi ha insegnato la vita . Qui, adesso,  mi sorride meravigliosa seppur affaticata. 
Godiamoci il momento, anche se dentro mi sento come il cielo Quello che accadrà domani nessuno lo sa. Mi godo il momento, mi godo te. Per sempre, tuo figlio.


martedì 18 agosto 2015

TRA ANALOGICO E DIGITALE

Mi consola vedere che la sindrome da amarcord non attanaglia solo me. Ci sono pagine su Facebook, sono stati scritti addirittura dei libri, fatto sta che tutti quelli che hanno dai trentacinque anni in su ricordano con nostalgia gli anni ottanta e ormai, visto il trascorrere inesorabile del tempo, anche gli anni novanta, che mai avrei pensato di rimpiangere visto che al momento in cui gli ho vissuti non mi piacevano nemmeno un po’ perchè legato al decennio precedente. Eppure...Eppure oggi li ricordo con affetto ed un pizzico di rimpianto.  Vero, ripensi alla tua adolescenza e vorresti tornare indietro, ma non è quello. Sono le emozioni vissute in maniera più semplice ed “analogica” a fare la differenza. 
Qualcuno si chiederà cosa c’entrino l’analogico ed il digitale in uno scritto che riecheggia il passato e i suoi momenti. C’entra eccome. Se pensiamo che negli anni novanta non esisteva internet, che ancora ascoltavamo i dischi con il vinile essendo il cd all’inzio della sua diffusione (io lo faccio ancora) e soprattutto eravamo consapevoli, chi più chi meno, di cosa volesse dire sentire un contatto, stabilire un contatto come cantavano gli Stadio in quegli anni, come quello della puntina che solcava il disco, quello delle persone che incontravamo ed abbracciavamo magari dopo esserci dati appuntamento al telefono da casa, senza messaggi, senza foto, solo con la sfera dell’immaginazione che varcava le porte del desiderio e dell’ignoto.
Guardare ossessivamente indietro è sbagliato. Indietro non c’è più nulla.  Ma il ricordo resta e non puoi farlo scappare via. Sono sempre dell’idea che il calore di un abbraccio, il solco di una puntina, il desiderio di stare insieme, per farla breve il vivere in “analogico” siano assai migliori dell’appiattimento  di un messaggio preconfezionato, di un brano musicale ovattato senza fruscii, di un isolamento multimediale che ci sta riducendo gradatamente a degli esseri solitari senza cuore nè anima.

venerdì 29 maggio 2015

L' HEYSEL TRENT'ANNI DOPO. NON ABBIAMO IMPARATO NIENTE



Il mio ricordo della tragedia dell’Heysel è un misto fra sgomento e stupore. Sì, stupore, perchè a nove anni hai un’idea della morte assai lontana e vaga, malgrado la vita facendomi perdere il padre solo due anni prima me ne avesse fornito un’immagine subito nitida ed ahimè fortemente reale.

Le immagini con la voce spezzata dalla tristezza di Bruno Pizzul non possono essere descritte a parole. Ci misi degli anni a rendermi conto appieno di quello che accadde.  Poi, tutto il resto, la partita che si disputò solo perchè non si poteva, in quel momento, fare altrimenti, onde evitare una strage peggiore. Non vorrei mai essere al posto della persona che dovette prendere quella decisione in quel momento.
Sorvolo su altri aspetti, sull'esultanza di Platini e di qualche suo compagno di squadra dopo il gol su rigore realizzato dallo stesso Platini. Posso solo auspicare, forse ingenuamente, che non sapessero nulla. Mi fa star meglio crederlo, mi piace crogiuolarmi in questa incredibile illusione.  Fu tutto surreale, una farsa nella tragedia. La verità la sanno solo loro. Quello che tutti sappiamo è
che quella sera ci furono trentanove povere vittime.

Oggi, a distanza di trent'anni, non abbiamo imparato nulla da allora. Ci sono state altre stragi, forse meno eclatanti numericamente, forse meno devastanti psicologicamente, ma la violenza continua ad esserci e non necessariamente è fisica, non necessariamente fa morire le persone nel corpo. Le fa morire invece nell'anima, nel dolore peggiore che è quello provocato dalle parole, dagli striscioni ignobili contro quelle vittime che da anni imperversano negli stadi di tutta Italia. Abbiamo visto e sentito di tutto nel corso di questi anni. Non cambierà mai nulla. L’animo umano trova compiacimento nel male in quanto strada più semplice da percorrere. Per fortuna non siamo tutti cosi, per fortuna ancora oggi molti di noi possono rivolgere uno sguardo al cielo e ricordare quelle trentanove povere anime salite al cielo con il solo sogno dentro, quello di poter veder vincere la propria squadra del cuore.

sabato 23 maggio 2015

L'ATTESA IN UNA SPERANZA






La notte fa capolino. Le giornate si stanno allungando sempre più, fra un mese si raggiungerà il culmine di quella stagione che ho sempre amato più di tutte, quella primavera che sfocerà nell’estate, speriamo non troppo calda e comunque soleggiata e luminosa. E’ un desiderio ed un augurio anche metaforico, non posso e non voglio più nascondere i miei stati d’animo. Qui mi esprimo in piena libertà da sempre, qui scrivo da sempre quello che voglio. Non posso che offrire questo.

Da alcuni giorni, e non solo per la contingenza della situazione familiare che mi vede direttamente coinvolto, rifletto sulla fede, sulla sofferenza, sul rapporto intrinseco fra malattia, uomo e Dio. Leggo, rileggo e ripenso. E risposte valide, a livello razionale, non possono esserci. Pertanto, l’unica risposta che va al di là di un “uno più uno che fa due” non può che essere l’abbandono alla fede, ad un disegno, quello di Dio, di difficile se non impossibile comprensione per noi umani che come Gesù stesso ricorda nel vangelo pensiamo da umani e non secondo la linea di pensiero di Dio.

La vita purtroppo, come diceva qualcuno, non è sempre rose e fiori. No, me ne sono accorto presto, fin da piccolo ho capito come funzionava questo spartito. Quando lo suoni, ci sono dei momenti in cui la sinfonia è meravigliosa, soave, gioiosa. In altri momenti è cupa, pesante, triste. E’ la canzone della vita, e ci piaccia o no è così. Ed occorre accettarlo. Anche perché alternative, purtroppo, non ve ne sono.


Sarebbe bello se la vita fosse un percorso lungo che so più di cent’anni senza malattie e sofferenze, coi genitori che campano altrettanto, successi professionali, benessere economico, amori da Giulietta e Romeo e chi più ne ha più ne ha metta. Tutto questo è bellissimo. Tutto questo è favoloso. Sicuramente surreale. Tutto questo non è la vita.

Io non so cosa ci sia di là. Da credente ho fede e speranza per qualcosa che ci attenda oltre quello che c’è qua. Intanto, malgrado tutto lotto, cado, mi rialzo, sbaglio e mi correggo. Sempre sperando in tempi migliori in cui il sorriso torni a splendere come il sole assente in queste lunghe ed affannose giornate di fine maggio.

domenica 17 maggio 2015

LA SCOPERTA DI UN PORTENTO, LA CERTEZZA DI UN TALENTO: GRAZIE NICOLA



Ci sono delle cose che scopri dopo pur sapendo che avresti dovuto e potuto farlo prima. La pigrizia,
l’indolenza, l’impossibilità o spesso l’incapacità di volersi evolvere fa sì che certe meraviglie incrocino la tua vita con colpevole ritardo. O forse, più semplicemente, ogni cosa ha il suo tempo.

Da anni mi parlavano di Nicola Congiu, in molte circostanze amici e conoscenti mi chiedevano di sentirlo cantare dal vivo definendomelo come qualcosa di indescrivibile ed unico. Eppure tutto questo, fino a venerdi scorso, non è avvenuto.  Avevo bisogno di quella che per me, appassionato irriducibile di Elvis, fosse la prova del nove (come se non bastassero le sue eccezionali performance di altri artisti), ovvero sentirlo cantare di persona le canzoni di Elvis nella serata dedicata ad un nostro caro amico che non è più qui con noi. C’era forse bisogno di uno stupore condiviso, perchè le mie stesse sensazioni sono quelle provate da oltre seicento persone presenti in teatro. Non bastano poche parole per descrivere gli sguardi, lo stupore, l’ammirazione e la gioia di chi lo ha visto ed ascoltato. Un’emozione nell’emozione di una serata già di per sè toccante e dal sapore dolce-amaro.

Nicola è un bolide canoro da mille e una notte. Canta, ma non canta soltanto, è un’emozione, una
vibrazione dell’anima materializzata in un’onda sonora che con maestria varia dal basso verso l’alto per poi scendere e risalire nuovamente.  Nicola è un tuono vocale che non spaventa ma desta chi lo ascolta facendolo sognare nel  momento in cui lo osserva notando il suo sguardo spesso rivolto verso l’alto, come a ringraziare chi questo dono glielo ha dato e lui lo sfrutta  nell’unico modo possibile, regalando gioia , sogni e brividi a chi lo ascolta.

La semplicità di Nicola nel porsi davanti alle persone, l’umiltà con cui si pone nel quotidiano è lo specchio fedele di quando di esibisce sul palco.  Un look elegante ma semplice, tanti sorrisi, tanta voglia di stare con le persone ed un unico vero amore, diretto, senza fronzoli, senza contorsioni , senza veli o maschere: la musica. E poi la magia della sua voce. Nicola può cantare tutto. E’ impressionante, credevo fosse un cantante melodico ascoltandolo su you tube . Nicola è un portento musicale. Sentirlo solo coi supporti sonori è come mangiare un piatto succulento riscaldato. Buono, per carità, ma non  paragonabile a quando lo  puoi gustare appena preparato al momento. E’ come il pane appena sfornato. La fragranza e l’aroma devi sentirli subito, altrimenti volano via.  E Nicola va ascoltato al momento, “live”, perchè è un’emozione di vita che non si può perdere e si può godere appieno solo nell’istante in cui lo vivi e lo senti dentro di te.

Nicola è un bolide canoro da mille e una notte. Una ferrari vocale che meriterebbe di correre in circuiti più prestigiosi. Ma tant’è. Intanto, io, ti chiedo scusa per essermi accorto di te così tardi e ti ringrazio ancora per le emozioni che ci hai regalato venerdi.  Sei bravo, tanto bravo.

giovedì 12 febbraio 2015

LE DOLCI ACQUE DELLA LIBERTA'

Alcune letture che definisco “illuminate” ti aprono gli occhi, la mente, ed il cuore. Oltre ad esse l’esperienza della quotidianità vissuta ogni giorno ti fa comprendere, crescere e riflettere. L’insieme delle due cose ti porta ad evolverti e e maturare. Non esiste vita senza evoluzione e cambiamento, almeno per me.
Cambiamo ogni giorno, e tutti i giorni sono davvero diversi l’uno dall'altro. Quello che conta è comprendere questo cambiamento affinché ci aiuti ad evolverci. Non è facile, lo so bene, sono il primo io a sbattere spesso la testa contro il muro. Il cambiamento costa fatica, mettersi in gioco, e sbucciarsi le ginocchia. Brucia un po’, poi passa.

Da sempre sento parlare di “libertà”. Ma cosa sarà mai questa “libertà”? Libertà di fare quello che ci pare prevaricando sugli altri a sportellate facendo i nostri porci comodi? No, non è quello.
Per me libertà significa lasciare che le persone che frequentiamo ed incontriamo nella nostra vita compiano il loro percorso che non è detto sia il nostro, senza interferire.  Le strade si possono incrociare, possono essere parallele, possono anche dividersi. Fa parte dello “stradario” della vita, in alcune di esse ci sono tante persone nuove che entrano, altre che escono, è come un ricambio in una vasca colma d’acqua in un acquario. L’importante è che la vasca sia piena d’acqua nitida, pulita, e non contaminata. Spetta a noi in primis renderla cristallina, credendo in determinati valori che sono quelli unanimemente riconosciuti ma che facciamo così tanta fatica, io per primo, a mettere in pratica.
Io immagino così la vita, come una grande vasca le cui acque vengono costantemente messe in ricircolo, come una partita di pallanuoto in cui entrano giocatori nuovi in campo, alcuni escono, alcuni rientrano a tempo determinato altri fino alla fine della partita. Bisogna lasciare le cose come vengono, bisogna lasciar andare.

Chi sa lasciar correre, chi sa accettare le situazioni per come vengono, col sorriso, ha capito come funziona il meccanismo delle acque della vasca ed ha imparato a giocare a pallanuoto.


mercoledì 28 gennaio 2015

UN MOTORE SEMPRE ACCESO

Ci sono momenti in cui bisogna cambiare. Ci sono momenti in cui bisogna tornare ad apprezzare la vita per quello che ci offre, anche se siamo affannati, stanchi, anche demotivati. Malgrado tutto c’è sempre un’altra possibilità.
Oggi il cielo sopra Milano è bellissimo. Da qui si vedono le montagne. Fanno sognare. Non perdiamo la voglia di sognare, è bellissimo avere dei sogni. Quando sogni vuol dire che sei vivo, che hai delle aspirazioni, sei creativo, la vita coi sogni è piena di colori, di sfaccettature, un arcobaleno di emozioni dentro e fuori.
Siamo circondati da un mare di negatività. Accendi la tv e vedi minacce di ogni genere, terrorismo, violenze, atrocità verso i più deboli. Un’escalation di male a tutto spiano. Tutto sembra portare ad una spirale senza fine. Eppure secondo me non è la fine. Il mondo si è sempre rialzato, in qualche modo, ed è sempre andato avanti spinto dall'unico motore che non potrà mai spegnersi fino a quando non lo deciderà qualcuno che sta più in alto di tutti noi.
Il motore dell’amore deve rimbombare forte anche quando sembra più difficile, anche quando appare ingolfato, impolverito, scarsamente supportato. Va alimentato sempre con la giusta benzina, una miscela di perdono, compassione, ed apertura verso gli altri. Anche e soprattutto quando tutto sembra remare contro.

Mi rendo conto che non è facile, mi rendo conto che è una strada difficile. Ma che senso ha vivere se si percorre sempre la strada comoda, senza ostacoli, liscia, quella che non ti fa rischiare, quella che non ti fa uscire dalla tua zona di “comfort”?

venerdì 16 gennaio 2015

CAPITANO MIO CAPITANO



Chi segue il calcio al di là della propria appartenenza calcistica si sarà accorto di come non solo il gioco si sia evoluto, velocizzato, ma anche e soprattutto di come sia cambiato il modo di interpretare alcuni ruoli chiave strettamente legati ad esso.
Entrando nel dettaglio, faccio riferimento a quello dei difensori centrali, quelli che una volta venivano chiamati stopper e, nel caso specifico di queste mie poche righe, il libero.
La professione calcistica del libero veniva svolta in modo impeccabile dal capitano dei capitani, il nostro unico, indimenticabile e mai troppo amato Franco Baresi
Franco Baresi era l’esaltazione del ruolo di libero alla sua massima potenza. Lo paragonavano a Beckenbauer, non a caso lo chiamavano Franz, ebbene io ho solo visto dei filmati di Kaiser Franz, il grande libero della Germania degli anni settanta,  mentre di Baresi ho visto tante partite dal vivo e i miei ricordi sono più vividi, presenti, palpabili.
Senza arrivare ad imbarazzanti accostamenti fra il Milan attuale e quello di un tempo, si può notare, anche osservando tutte le altre squadre, che i difensori centrali di oggi non sono in grado di intrerpretare il ruolo come lo faceva lui.
Se ci si fa caso, il difensore centrale di oggi esegue il suo compitino,  difende a zona, randella quando è necessario, ma sono tutti più o meno cloni dello stesso stampino prodotti della catena di montaggio del calcio moderno. Rocciosi, alti, muscolosi, imperiosi nel gioco aereo. Tutto assai lineare. Teoricamente tutto quello che serve per svolgere bene il compitino del centrale difensivo.
E poi?
E poi manca quello che aveva lui. Senza voler aprire l’ennesimo capitolo del libro della nostalgia, diventa altresi inevitabile ricordare quello che aveva lui e che oggi forse non sanno nemmeno cosa sia.
Franco Baresi era un normotipo. Non troppo alto, non troppo potente. Eppure era il migliore, il più grande di tutti nel suo ruolo.
Non so voi, ma a me mancano gli sganciamenti del capitano, quelli che Carlo Pellegatti chiamava “coast to coast” del capitano.  Non li fa più nessuno.  Quelle sue sortite repentine, era imperioso nella sua bellezza calcistica quando usciva palla al piede e tagliava come una lama nel burro le difese avversarie passando per la mediana. Ricordo in questo senso una sua immagine dei mondiali di Italia 90’, mi pare fosse la gara contro la ex Cecoslovacchia quando dopo aver effettuato un recupero dei suoi  si rimpossessa  del pallone, lo passa a Giannini e se lo riprende quasi sradicandoglielo per poi partire in proiezione offensiva come una saetta con la palla incollata al piede. Per fare tutto questo devi avere una personalità fuori dal comune. Per fare questo devi essere Franco Baresi, uno che Liedholm fece esordire a diciassette anni vedendo prima degli altri chi era. Uno che sopportò due retrocessioni in B, seppe resistere alle lusinghe della Sampdoria di Mantovani (all’epoca una grande squadra ) per poi salire sul tetto del mondo con le sue forze, il suo coraggio, la sua passione, il suo talento. Uno che pianse per quel rigore tirato alle stelle dopo una partita epica, forse la migliore della sua carriera, nella maledetta finale di USA 94’ persa come spesso ci succdeva a causa di quegli altrettanto maledetti rigori.
In quell’immagine, in quell’episodio (recupero difensivo, ripartenza ed uscita  palla al piede) c’è tutto Baresi. Classe, determinazione, intuizione, velocità, senso del gioco.  Sfido chiunque a trovarmi uno che nel suo ruolo oggi sia in grado di fare tutto questo. Posso aspettare per ore ed ore, giorni, mesi, anni.
Intanto, mentre attendo, dedico  a te mio capitano queste righe di elogio e di profonda ammirazione e stima.
Con affetto, un tuo tifoso ed inguaribile estimatore

lunedì 12 gennaio 2015

IL CAMPIONATO DELLA VITA

Sono giornate di riflessione. Sono giornate di dubbi, di incertezze, di paure. Non ho la sfera di cristallo, ho anche io i miei momenti di sconforto. La vita è un percorso, è un campionato in cui ci sono partite in cui vinci facile, altre in cui vinci faticando (forse sono le vittorie migliori), altre in cui pareggi, altre in cui perdi lottando, altre in cui prendi delle batoste tremende ed esci miseramente sconfitto. Il calcio, lo sport in generale, sono le metafore più riuscite di questo nostro percorso terreno.
La strada più facile è senza dubbio quella di giocare tanto per giocare, senza impegnarsi, lasciando di fatto spazio all'idea imperante che tanto nessun trofeo alla fine ci verrà assegnato. Esultare per gioie effimere, gol fini a se stessi ( sesso, alcool, amenità varie la cui gioia è talmente breve che nemmeno ce ne accorgiamo), per poi lasciarsi andare nello sconforto più totale quando perdiamo, avvertendo una consapevolezza interiore che tanto è inutile battersi perché non c’è nessun trofeo che ci aspetta alla fine di questo “campionato” di vita
No, così non va bene. Non va bene comunque. Almeno per me.  Anche se non sappiamo quale trofeo ci aspetti, io voglio credere che il campionato che sto giocando mi porti ad una gioia più grande, ad un trionfo più grande. Altrimenti cosa gioco a fare? E che senso ha tutto questo?
Le sfide difficili sono le più esaltanti. La gioia più grande la raggiungo dalle gioie più piccole, non quelle effimere, ma quelle che mi riempiono il cuore, me lo riscaldano e danno senso compiuto a quello che faccio.

Per questo, da ora in avanti, mi batterò per raggiungere quel trofeo apparentemente inesistente, apparentemente inutile ma che in realtà sarà la più grande gioia sollevare un giorno quando faremo una grande festa. Ma non avverrà qui. Io ci credo.