io e il mare

io e il mare

mercoledì 28 gennaio 2015

UN MOTORE SEMPRE ACCESO

Ci sono momenti in cui bisogna cambiare. Ci sono momenti in cui bisogna tornare ad apprezzare la vita per quello che ci offre, anche se siamo affannati, stanchi, anche demotivati. Malgrado tutto c’è sempre un’altra possibilità.
Oggi il cielo sopra Milano è bellissimo. Da qui si vedono le montagne. Fanno sognare. Non perdiamo la voglia di sognare, è bellissimo avere dei sogni. Quando sogni vuol dire che sei vivo, che hai delle aspirazioni, sei creativo, la vita coi sogni è piena di colori, di sfaccettature, un arcobaleno di emozioni dentro e fuori.
Siamo circondati da un mare di negatività. Accendi la tv e vedi minacce di ogni genere, terrorismo, violenze, atrocità verso i più deboli. Un’escalation di male a tutto spiano. Tutto sembra portare ad una spirale senza fine. Eppure secondo me non è la fine. Il mondo si è sempre rialzato, in qualche modo, ed è sempre andato avanti spinto dall'unico motore che non potrà mai spegnersi fino a quando non lo deciderà qualcuno che sta più in alto di tutti noi.
Il motore dell’amore deve rimbombare forte anche quando sembra più difficile, anche quando appare ingolfato, impolverito, scarsamente supportato. Va alimentato sempre con la giusta benzina, una miscela di perdono, compassione, ed apertura verso gli altri. Anche e soprattutto quando tutto sembra remare contro.

Mi rendo conto che non è facile, mi rendo conto che è una strada difficile. Ma che senso ha vivere se si percorre sempre la strada comoda, senza ostacoli, liscia, quella che non ti fa rischiare, quella che non ti fa uscire dalla tua zona di “comfort”?

venerdì 16 gennaio 2015

CAPITANO MIO CAPITANO



Chi segue il calcio al di là della propria appartenenza calcistica si sarà accorto di come non solo il gioco si sia evoluto, velocizzato, ma anche e soprattutto di come sia cambiato il modo di interpretare alcuni ruoli chiave strettamente legati ad esso.
Entrando nel dettaglio, faccio riferimento a quello dei difensori centrali, quelli che una volta venivano chiamati stopper e, nel caso specifico di queste mie poche righe, il libero.
La professione calcistica del libero veniva svolta in modo impeccabile dal capitano dei capitani, il nostro unico, indimenticabile e mai troppo amato Franco Baresi
Franco Baresi era l’esaltazione del ruolo di libero alla sua massima potenza. Lo paragonavano a Beckenbauer, non a caso lo chiamavano Franz, ebbene io ho solo visto dei filmati di Kaiser Franz, il grande libero della Germania degli anni settanta,  mentre di Baresi ho visto tante partite dal vivo e i miei ricordi sono più vividi, presenti, palpabili.
Senza arrivare ad imbarazzanti accostamenti fra il Milan attuale e quello di un tempo, si può notare, anche osservando tutte le altre squadre, che i difensori centrali di oggi non sono in grado di intrerpretare il ruolo come lo faceva lui.
Se ci si fa caso, il difensore centrale di oggi esegue il suo compitino,  difende a zona, randella quando è necessario, ma sono tutti più o meno cloni dello stesso stampino prodotti della catena di montaggio del calcio moderno. Rocciosi, alti, muscolosi, imperiosi nel gioco aereo. Tutto assai lineare. Teoricamente tutto quello che serve per svolgere bene il compitino del centrale difensivo.
E poi?
E poi manca quello che aveva lui. Senza voler aprire l’ennesimo capitolo del libro della nostalgia, diventa altresi inevitabile ricordare quello che aveva lui e che oggi forse non sanno nemmeno cosa sia.
Franco Baresi era un normotipo. Non troppo alto, non troppo potente. Eppure era il migliore, il più grande di tutti nel suo ruolo.
Non so voi, ma a me mancano gli sganciamenti del capitano, quelli che Carlo Pellegatti chiamava “coast to coast” del capitano.  Non li fa più nessuno.  Quelle sue sortite repentine, era imperioso nella sua bellezza calcistica quando usciva palla al piede e tagliava come una lama nel burro le difese avversarie passando per la mediana. Ricordo in questo senso una sua immagine dei mondiali di Italia 90’, mi pare fosse la gara contro la ex Cecoslovacchia quando dopo aver effettuato un recupero dei suoi  si rimpossessa  del pallone, lo passa a Giannini e se lo riprende quasi sradicandoglielo per poi partire in proiezione offensiva come una saetta con la palla incollata al piede. Per fare tutto questo devi avere una personalità fuori dal comune. Per fare questo devi essere Franco Baresi, uno che Liedholm fece esordire a diciassette anni vedendo prima degli altri chi era. Uno che sopportò due retrocessioni in B, seppe resistere alle lusinghe della Sampdoria di Mantovani (all’epoca una grande squadra ) per poi salire sul tetto del mondo con le sue forze, il suo coraggio, la sua passione, il suo talento. Uno che pianse per quel rigore tirato alle stelle dopo una partita epica, forse la migliore della sua carriera, nella maledetta finale di USA 94’ persa come spesso ci succdeva a causa di quegli altrettanto maledetti rigori.
In quell’immagine, in quell’episodio (recupero difensivo, ripartenza ed uscita  palla al piede) c’è tutto Baresi. Classe, determinazione, intuizione, velocità, senso del gioco.  Sfido chiunque a trovarmi uno che nel suo ruolo oggi sia in grado di fare tutto questo. Posso aspettare per ore ed ore, giorni, mesi, anni.
Intanto, mentre attendo, dedico  a te mio capitano queste righe di elogio e di profonda ammirazione e stima.
Con affetto, un tuo tifoso ed inguaribile estimatore

lunedì 12 gennaio 2015

IL CAMPIONATO DELLA VITA

Sono giornate di riflessione. Sono giornate di dubbi, di incertezze, di paure. Non ho la sfera di cristallo, ho anche io i miei momenti di sconforto. La vita è un percorso, è un campionato in cui ci sono partite in cui vinci facile, altre in cui vinci faticando (forse sono le vittorie migliori), altre in cui pareggi, altre in cui perdi lottando, altre in cui prendi delle batoste tremende ed esci miseramente sconfitto. Il calcio, lo sport in generale, sono le metafore più riuscite di questo nostro percorso terreno.
La strada più facile è senza dubbio quella di giocare tanto per giocare, senza impegnarsi, lasciando di fatto spazio all'idea imperante che tanto nessun trofeo alla fine ci verrà assegnato. Esultare per gioie effimere, gol fini a se stessi ( sesso, alcool, amenità varie la cui gioia è talmente breve che nemmeno ce ne accorgiamo), per poi lasciarsi andare nello sconforto più totale quando perdiamo, avvertendo una consapevolezza interiore che tanto è inutile battersi perché non c’è nessun trofeo che ci aspetta alla fine di questo “campionato” di vita
No, così non va bene. Non va bene comunque. Almeno per me.  Anche se non sappiamo quale trofeo ci aspetti, io voglio credere che il campionato che sto giocando mi porti ad una gioia più grande, ad un trionfo più grande. Altrimenti cosa gioco a fare? E che senso ha tutto questo?
Le sfide difficili sono le più esaltanti. La gioia più grande la raggiungo dalle gioie più piccole, non quelle effimere, ma quelle che mi riempiono il cuore, me lo riscaldano e danno senso compiuto a quello che faccio.

Per questo, da ora in avanti, mi batterò per raggiungere quel trofeo apparentemente inesistente, apparentemente inutile ma che in realtà sarà la più grande gioia sollevare un giorno quando faremo una grande festa. Ma non avverrà qui. Io ci credo.