io e il mare

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giovedì 5 aprile 2012

SERVIZI VINCENTI: Parte II


... Ora però non c’era più tempo per pensare, l’arbitro di sedia aveva chiamato il tempo e si era pronti a giocare.
Iniziò deciso Geronimo. Primo punto, servì una prima palla con una violenza inaudita, con tutta la forza che aveva nel braccio, come se avesse un cannone da far espoldere senza alcuna forma di controllo.
Ace. Andersson immobile come una statua di sale.
Un’ovazione del pubblicò precedette l’annuncio del giudice di sedia, secco e vibrante
“Fifteen love-quindici zero”.
Gli venne subito in mente la sua infanzia ricca ed opulenta. Il padre, titolato del fregio di “commendatore”, era stato insignito dell’Ambrogino d’Oro per lo sviluppo e l’ammodernamento della rete idrica in città. Era un uomo generoso Filippo Bardazzi, amato dal popoli degli “sciur” come dai “puverett”, tanto da prestarsi spesso ad opere di carità nascoste verso i meno bisognosi. Di suo padre ricordava questo, cosi come le domeniche mattine trascorse al laghetto dei Cigni a Milano 2, mentre sul piazzale i primi appassionati di macchine radiocomandate si dilettavano a chi faceva piu volte rotolare quelle che papà Filippo, sempre fiero ed orgoglioso della sua milanesità, chiamava bonariamente “caciavitt”.
La madre, una ricca ereditiera imparenata con i conti Borromeo, era la classica donna snob milanese con la puzza sotto il naso talmente forte da indossare una maschera anti gas al solo contatto per non rimanerci contaminato. Una donna gelida, senza arte né parte, la cui massima aspirazione era mostrare nelle serate fra amici l’ultimo visone acquistato, l’ultimo collier ricevuto in dono.
Tutto questo gli frullava in testa mentre Andersson gli era scappato via di un break e conduceva 4 a 1. Stava giocando male, ma non se ne curava più di tanto. La concentrazione era sulla partita della sua vita, quella che lui stava perdendo in modo ancor più netto rispetto a quella sul campo.
Andersson lo faceva spostare da una parte all’altra del terreno rosso come una trottola vibrante, lo irrideva con delle palle corte che lo lasciavano sulle gambe a tre metri di distanza dalla linea di fondo. Qualcuno dagli spalti cominciò a dissentire, qualcuno da casa probabilmente aveva già cambiato canale…
Non aveva presenza mentale. Continuava a tirare colpi fuori di due metri tanto per tirarli, un po’ come quando si trovava con il gruppo di suoi amici al casino di Saint Vincent, giù fish su fish solo per il mero gusto di buttare via soldi, di scappare dallla realtà. In realtà stava solo scappando da se stesso, dalla sua voglia di diventare uomo. E gli stava anche scappando l’incontro della vita. Andersson conduceva 6-1 4-2. Lo stava annichilendo.
Ad un certo punto sentì un urlo venire dagli spalti. Un signore di mezza età, dall’incondifibile accento romano, lo affrontò verbalmente durante un ennesimo fallimentare turno di battuta:
“Aooooooooooooooo, tirali fuori sti coioniiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii se ce li haiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!!!”
Era la scossa che nemmeno lo sguardo perso nel vuoto di Katia era riuscito a trasmettergli. Amava questa donna, sapeva che era il suo spartiacque da un’adolescenza che non voleva finire ad un’età adulta che si rifiuta di vivere. Tenne un turno di battuta e cominciò a cambiare tattica. Decise di aspettare l’avversario e di farlo venire avanti, scavalcandolo prontamente con dei pallonetti liftati alternati a dei passanti di dritto che lo infilavano di forza come un pollo allo spiedo.
Come direbbero i commentatori esperti sul pezzo, era girato il match. Andò a servire per il secondo set e riuscì a farlo suo, chiudendo il punto finale con una voleè di dritto smorzata, morbida, dolce, quasi impercettibile per il suono soave che la pallina procurò al suo contatto con la terra rossa.
Nel toccare la palla al volo riusciva a far riecheggiare in lui le sue prime cotte adolescenziali, quel modo unico di sentire la pelle profumata di vaniglia sul collo di una ragazzina e farla propria sfiorandola appena al contatto con le labbra. La dicotomia del suo essere dolce nelle coccole come nello stoppare la pallina al volo strideva con la violenza dei suoi colpi da fondo campo, paragonabili a quelli pelvici che infieriva alle belles de nuit di qualche elegante bordello monegasco. Ma era così, era lui, tutto ed il contrario di tutto. E non voleva cambiare.
Ora si sentiva forte e nel pieno controllo della situazione. Lo svedesone non gli faceva più paura, e gli insulti di qualche minuto prima si erano tramutati in cori da stadio. Dalla tribuna vip spiccavano le figure dei miti del tennis italiano, quella appesantita di Adriano Panatta e quella dai capelli grigio platino, sempre uguale nella classe infinita che sprigiona, di Nicola Pietrangeli. Lui era ad un passo da loro, dal superarli forse addirittura, perché la gente scorda facilmente il passato per lasciare spazio alle emozioni più recenti, forse più intense, forse meno facili da rimuovere…

Si andò al tie break del set decisivo. Stava riprendendo a farsi prendere dalla foga e dall’ansia, quella faìna maledetta che da anni si annidava dentro di lui facendogli perdere treni importanti nella sua carriera. Stava riprendendo a viaggiare nella sua testa, e non era più in partita. I pensieri dentro il campo del suo cervello erano come palline impazzite che lo bombardavano da ogni parte del rettangolo di gioco. Allo stesso modo Andersson lo stava prendendo nuovamente a pallate. Era sempre stato scostante, nella vita, incapace di essere un padre presente, nel lavoro, arrivando in fondo a tornei importanti e poi perdendo svariate volte al primo turno con avversari mediocri, spesso perché la sera prima la passava a fare gozzoviglie in giro per la città. Ora il match stava per chiudersi e lui non sapeva perché lo stesse buttando via, proprio come la sua vita.
Lo svedesone Andersson era il suo esatto opposto. Biondo, capelli lunghi, era una copia malfatta del leggendario Bjorn Borg. Del campione degli anni settanta ricordava la plombe con cui accettava ogni situazione sfavorevole, l’assoluta gelidità nel porsi davanti alle situazioni come se tutto quello che accadesse intorno a lui non lo riguardasse. Tutto ciò che Geronimo aveva sempre detestato, lui, così anticonformista, rasato a zero e con un orecchino a croce sul lobo destro, come amava dire, non assomigliava a nessuno.
Di fatto ora lo spilungone nordico conduceva per sei punti a tre ed aveva quindi tre match point. La partita era segnata, l’orologio posto ai bordi del campo segnava due ore e trentacinque miuti di gioco…

EPILOGO

Non aveva mai amato sentirsi dire cosa fare dagli altri. Era sempre stato uno spirito libero. Gli venne in mente quando tirò una pallina in faccia al suo primo allenatore di categoria, reo di averlo rimproverato perché non voleva che fumasse a quattordici anni e si presentasse agli allenamenti in infradito.
Andersson stava servendo per il match. Per altri cinque minuti Geronimo invocò l’altissimo affinchè riuscisse a fargli recuperare quel minimo di concentrazione necessaria per chiudere in bellezza l’incontro, con dignità. Fece ricorso poi ad ogni sua risorsa interiore per trovare la presenza mentale dentro di sé.
Andersson fece doppio fallo sulla prima palla del match. Tutto il pubblico, oltre che l’avversario, scoprì che lo svedesone era un uomo in carne ed ossa, che non aveva dei tubi d’acciaio al posto delle vene. Provava anche lui delle emozioni.
Sul secondo patch point Andersson picchiò una prima palla così forte da far piegare il braccio ad un lottatore di wrestling. Ma non aveva fatto i conti con chi aveva davanti a lui, il genio e sregolatezza del tennis, il mito e vaso di Pandora della vita. L’alterego indiano di Geronimo rispose di rovescio con un riflesso cibernetico, e la pallina come scheggia impazzita si infilò all’incrocio delle righe, mentre lo svedese rimase a bocca aperta con le gambe impiantate sul terreno, e lo sguardo perso nel vuoto.
Toccò nuovamente a lui servire, e sentiì nuovamente quella goccia indisponente di sudore cadergli sul naso dalla fronte. Ma non ci fece caso. E’ solo sudore, è solo acqua sporca, disse fra sé e sé. Sparò un proiettile imprendibile di dritto in lungo linea e si portò sul sei a cinque. Aveva un match point e lo poteva giocare sul suo servizio.
Il campo centrale del foro italico si era trasformato in un arena degna delle corride di Pamplona. Nessuno poteva immaginarsi all’inizio del torneo che un trentenne ormai a fine carriera, dileguato dai debiti per colpa della sua vita dissoluta, fatta di vizi, stravizi, orge, ed investimenti sciagurati, potesse di nuovo alzare la testa e sorprendere tutti.
Nessuno tranne lui. Senza pensare troppo a tutto questo, servì dal lato destro del campo la quinta prima palla consecutiva. Decise, per una volta nella sua vita, di controllare la sua esuberanza, di calibrare le sue emozioni, di morigerare la propria supponenza. Optò per una prima palla a tre quarti di velocità, dandosi eventualmente la possibilità di giocare il punto con degli scambi lunghi, magari con pazienza, requisito a lui sconosciuto nei precedenti trent’anni della sua vita.
Ma non ve ne fu bisogno.
Il colpo partì da destra verso sinistra diretto in centro. Andersson si allungò con tutti i suoi centonovantaquattro centimetri di altezza nel vano tentativo di riuscire a rispondere. Toccò appena la pallina ma senza riuscire a rimandarla dall’altra parte del campo. Per la nomenclatura tennistica trattasi di servizio vincente.
Di fatto era punto, era partita, era vittoria.
Alzò le braccia al cielo ricordando a molti quel ragazzo pel di carota che vent’anni prima vinse il torneo di Wimbledon da adolescente. Lui non lo era più da un pezzo, ma aveva lo stesso entusiasmo, la stessa voglia, la stessa carica di un diciassettenne.
Capì in quel momento,mentre il pubblico lo osannava, e le tv lo assediavano, che a volte nella vita non è necessario fare punto con un colpo solo, ma è sufficiente anche, solo e soltanto, un semplice servizio vincente.

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